All’amico Domenico: un ricordo di Domenico Susi
“Urlano quando tutti
gridano e tacciono quando dovrebbero parlare”
Ignazio Silone
Ci
univano molte cose: gli ideali socialisti, la passione per la letteratura,
l’amore per le Medicine non Convenzionali. Eravamo convinti, entrambi
profondamente, che nell’attuale regime sociale capitalista non si è
affievolito ma si sviluppa in forme nuove il contrasto fra le forze
produttive ed i rapporti di produzione, mantenendo attuale e necessaria la
lotta di classe tra il proletariato (nella sua funzione storica e in qualità
di costruttore di un blocco storico e sociale antagonista) e la borghesia
dominante. Entrambi propendevamo per un lento, illuminato riformismo poiché,
per entrambi, uno dei grandi equivoci nel processo di rinnovamento in corso
nella sinistra mondiale - particolarmente in quella che non ha perso il
gusto per l'utopia socialdemocratica - è la povertà di argomenti che una
gran parte dei militanti della sinistra tradizionale (o "ortodossa") usa per
affrontare il problema del "blairismo" come fenomeno politico. Per noi due,
invece, il "blairismo" risulta essere un tentativo sincero di risposta alla
crisi della socialdemocrazia e del socialismo, non un tradimento dei
cosiddetti ideali rivoluzionari di classe, ma una prassi di rinnovamento
universalista del patto socialdemocratico.
Molte volte ci siamo detti, anche
se attraverso argomentazioni e culture differenti (laica la tua, più
cattolica la mia), che assumere le libertà che si riferiscono ai diritti
sociali, civili e politici ma anche il libero esercizio delle capacità
individuali imprenditoriali, rappresenta una rottura sia con il modello
sovietico sia con lo stravagante ritorno al liberalismo. Si trattava di
utopia? Forse, ma di sicuro ben minore di quella che fu l'utopia comunista.
Anche l'impotenza, nel capitalismo organizzato e sviluppato, del "soggetto
di classe" e del "soggetto partito" a creare le condizioni politiche e
economiche favorevoli a una transizione verso il socialismo (come modo per
avviarsi verso una società "interamente altra") impone ai socialisti la
necessità di pensare a un progetto "interamente nuovo".
Ma per questo
servono (come riferimento per le pratiche immediate di governo che vogliamo
realizzare in riferimento sia al degrado delle relazioni umane spacciate
come frutto della naturalità delle relazioni sociali sia delle
disuguaglianze sociali, sia all'alienazione indotta dal consumismo idiota
come dal bellicismo "correttivo" delle democrazie mature, sia alla
manipolazione delle libertà pubbliche sia alla visione dello "Stato
totalizzante" presumibilmente necessario per combattere un "mercato
totale"), uomini come te, politici autentici, animati da veri ideali,
infaticabili e sognatori, indeflettibili rispetto all’assunto morale e alle
idee.
Dicevi spesso che “una nuova sinistra sorgerà e si affermerà
solamente se sarà in grado di offrire una prospettiva alle esigenze che
emergeranno dalle ceneri di un neoliberalismo agonizzante”.
Ma con quali
uomini, ora, tutto questo?
Hai scritto, nella presentazione ad un mio libro
(da te voluto tenacemente e difeso e titanicamente “giustificato”) “la
base per un dialogo è, oltre alla buona volontà, l’uso di un linguaggio
comune. È necessario quindi definire la medicina convenzionale e le "altre"
medicine e chiarire il significato di alcuni vocaboli che spesso sono usati
in modo improprio, equivoco e confondente.” Parole sagge, profonde, che
rivelano un animo improntato al dialogo, predisposto alla comprensione,
capace di tradurre il “diverso” in valore. Ed è questo che avevi imparato
(da Croce, da Silone, dal contatto diuturno con “l’uomo”): la capacità di
ascoltare, dialettizzare, accogliere e tradurre in pratica armoniosa le più
svariate differenze.
Chi ti conosceva poco avrebbe potuto confondere il tuo
pragmatismo (da politico consumato in 45 anni di ininterrotta esperienza e
militanza) in riduzionismo superficiale e, nella peggiore delle ipotesi, in
una cultura fatta di stigmi e pregiudizi. Raramente (come hanno scritto Silone, Pisolini, Sciascia, Trabucchi e, di recente, la Fallaci) ci si
imbatte in uomini e donne capaci di alzare la voce e battere i pugni sul
tavolo di fronte all'ingiustizia e alla prevaricazione degli ideali. Gli
strumenti attraverso cui siamo stati istruiti a compiere le più grosse
infamie sono l'ignavia, l'apatia che ci portano ad essere, volenti e
nolenti, pecoroni di un gregge che viene guidato, indisturbatamente e
abilmente, da poteri più o meno occulti nella loro essenza ma certamente
espliciti nella loro fenomenologia. Grazie a te, al tuo esempio concreto, a
volte mi sono sentito fuori da quel gregge.
Mi hai insegnato che il problema
centrale dell’oggi è che viviamo in una società, in un mondo in cui la
passione, gli ideali, i grandi uomini e le grandi donne, stanno dormendo o
peggio ancora sono morti (prima ancora
di esserlo,
biologicamente). Mi hai insegnato che chi opera in ambito intellettuale deve
imparare a ragionare (ed argomentare) fuori dai siloniani “lindi pacchetti”,
deve affermare con forza la sua visione delle cose senza compromessi, senza
ammorbidimenti e tenendo conto che il primo valore è la ricerca “laica” (e
non laicista) della “verità” intesa come recupero dell’uomo. Ricordo (ora
con una forza più viva, sembra ridicolo dirlo), il tuo sorriso dopo un mio
intervento in un Convegno da te presieduto. Mi interrogavo, in quella
occasione” sul perché dobbiamo stupirci o indignarci (che è peggio), se la
gente (parametro di riverite vendite e classifiche) sinceramente preferisce
leggere cosa mangiano e pensano i calciatori e le vallette e i cantanti e le
sarte “stiliste”, nei loro ambienti così mitici e leggendari per gli zombi,
mentre i cloni pacificamente se ne fottono di ciò che narra o congegna o
suppone o auspica il modesto letterato (smanioso o schivo) fra il suo
“tavolino” e il suo “cestino”. I vari aspetti della sprovincializzazione
culturale: il realismo “epico” (fra Hemingway e Brecht); l’arte astratta, e
anche espressionista astratta; le tecniche e pratiche del frammento (Adorno
e Musil non già La ronda); la stilizzazione formalista e strutturalista;
l’espressività del plurilinguismo; la neoretorica dei “generi” letterari;
l’analisi ravvicinata dei testi poetici; i tanti “nuovi modi di...” non
interessano nessuno perché non sappiamo coinvolgere o interessare. I nostri
paesaggi culturali (e mentali) sono sempre più angusti, più da specialisti;
allontanano invece che avvicinare. Mi dicesti allora (in un sussurro
frusciante, da amico e nell’orecchio) che ogni generazione deve affermarsi
da sé, con le proprie opere e i propri critici. L’intimismo piccolo-borghese
da tinello e villetta con la nonna e i piccini, e gli ex-ragazzi che fanno i paparini, e gli ex-giovani che danno lezioncine di moralismo dabbene non mi
avrebbero portato a far comprendere il mio messaggio. Avrei dovuto invece,
pensandoci e ripensandoci a lungo, infilare, fra le pieghe di una anormale
normalità, creare nessi fra medicina e le altre arti o col “pensiero” in
genere – senza mai far prevale una esclusiva considerazione del proprio io.
Se adesso mi paragono all’importanza e alla profondità e all’impegno del tuo
pensiero, quanto vana mondanità, quanta inutile frivolezza mi scopro
addosso.
Mi hai insegnato che ogni parola, ogni riga, o conferenza o libro
debbono descrivere movimenti, situazioni, mentalità, ambienti, con aperture
e squarci su panorami e prospettive, non trame offerte da realtà sociali e
intellettuali e di costume da “audience” omogeneizzata o da “bestseller”
industriale.
Raccolgo il tuo monito; ma quale pesante eredità ci lasci. |